lunedì 4 febbraio 2008

Marini ancora non chiude i giochi, ma è già campagna elettorale


Franco Marini tirerà le somme oggi, dopo aver incontrato le delegazioni di Forza Italia e Pd, i partiti più rappresentativi, e dice che soltanto allora avrà elementi di valutazione conclusivi. Ancora non si arrende, almeno a parole. “Se lo spiraglio fosse già chiuso andrei in vacanza”, aveva tagliato corto sabato abbandonando Palazzo Giustiniani al termine della seconda giornata di consultazioni. Si era poi compiaciuto del fatto che le organizzazioni imprenditoriali e sindacali da lui ricevute in questa tornata si siano ritrovate d’accordo nell’augurarsi una nuova legge elettorale. Ma che la situazione sia ormai ingestibile e lo sbocco elettorale inevitabile Marini lo sa meglio di chiunque altro, nonostante professi un ottimismo che gli viene garbatamente contestato da Fausto Bertinotti - che esclude, da parte sua, la possibilità di un nuovo incarico se Marini, come sembra ormai certo, non riuscirà a comporre una maggioranza attorno a un progetto di nuova legge elettorale largamente cvondiviso. Vanno del resto in questa direzione tutti i segnali che sono stati stati fatti pervenire al presidente del Senato dallo stato maggiore di Forza Italia - per suggerigli una prudenza che non sembra però stia connotando le sue esternazioni. La conferma che questa crisi non ha sbocco, se ce n'era bisogno, la si era colta anche nelle dichiarazioni di Luca di Montezemolo, che realisticamente è sembrato ormai rassegnato all’idea che si voterà con queste regole e che bisogna se mai puntare a svelenire la campagna elettorale per rendere possibile l’avvio, a urne chiuse, di una legislatura che sia costituente. Lo stesso obiettivo che è stato posto alla base della ritrovata intesa tra Silvio Berlusconi e Pierferdinando Casini nei giorni scorsi.

Non solo. Non bastasse Montezemolo, a far capire come la situazione sia ormai sfuggita di mano lo conferma soprattutto la presa di posizione, dopo l’incontro con Marini, dei referendari, che hanno chiesto di far celebrare la consultazione a marzo (prima dei termini di legge) per poter rimnnovare il Parlamento a maggio. Una richiesta subito contrastata dal comitato per la riforma della legge elettorale – che avalla dubbi di costituzionalità sulla legge elettorale e ancora più consistenti su quella che scaturirebbe da un vittoria del sì nel referendum - guidato da Franco Bassanini e ricevuto anch’esso da Marini. Una vera babele, che fa capire perché la strada della riforma non sia stata praticabile nei mesi scorsi e a maggior ragione non lo sia oggi, dopo che anche seguito dell’incapacità di trovare una sintesi sulla materia elettorale, la maggioranza si è avvitata in una spirale che l’ha portata a sciogliersi facendo ricadere sul governo Prodi la sua crisi e determinandone la caduta. Insomma, hanno fatto tutto da soli.

Del resto, che anche a sinistra si sia preso atto dell’ineluttabilità dello scioglimento ormai imminente del Parlamento, è confermato dai toni propri di una campagna elettorale usati a Palermo da Walter Veltroni, che ha attaccato a testa bassa il centrodestra proclamandosi da un lato la novità della politica italiana, e dall’altro difendendo e rivendicando i risultati del governo Prodi. Che però è stato fatto cadere dalla ex maggioranza. Per i leader del centrodestra è stato sin troppo facile rispondere. Con una punta di preoccupazione, peraltro. Perché sta prendendo corpo una strategia nel centrosinistra che mira a sollevare un polverone sui guai che si annunciano soprattutto per la tenuta dell’economia e a scaricarne la responsabilità non su chi, il governo Prodi, non li ha saputi prevedere (e comunque ne ha ignorato la portata dilapidando - è stata la contestazione ricorrente dell'opposizione - il cosiddetto "tesoretto"), ma sul centrodestra che invece li aveva evocati contestando a più riprese e per tempo le impostazioni e le scelte di politica economica di un governo condizionato in modo determinante dalla sinistra radicale.

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