Il leader dei liberaldemocratici guarda a gennaio e pensa a un governo istituzionale
Lo spettacolo offerto giovedì al Senato dalla maggioranza è stato per Dini l'ulteriore prova che «serve un governo istituzionale». Il leader dei Liberaldemocratici è ormai convinto che «a gennaio bisognerà voltare pagina per evitare il declino e superare l'emergenza in cui versa il Paese », che «andranno coinvolte forze politiche, imprenditoriali e intellettuali, in una nuova stagione di intenti»: «Perché quando la casa brucia, tutti devono aiutare a spegnere l'incendio». La scelta di Dini non è maturata per le avances di Silvio Berlusconi, piuttosto è l'epilogo di un ragionamento iniziato nel 2006, subito dopo il voto, quando — inascoltato — invitò il centrosinistra a meditare sull'esito della sfida nelle urne. Era la «tesi del pareggio», che allora i prodiani bollarono come un'eresia, ma che nell'ultimo mese ha fatto proselitismo in una maggioranza piegata da una crisi profonda, e dove si è definitivamente persa la fede nell'«autosufficienza». È stato Massimo D'Alema ad avviare il processo revisionista durante l'ultimo convegno di Italianieuropei, quando ha ammesso che «il centrosinistra all'inizio della legislatura commise l'errore di non valutare appieno il risultato elettorale.
Quel risultato avrebbe dovuto suggerire l'assunzione di una iniziativa per una comune responsabilità nel governo della legislatura ». Il ministro degli Esteri si riferiva alle scelte compiute dall'Unione sugli incarichi istituzionali, ma Dini — ospite quella sera di Otto e mezzo — aveva colto l'occasione per andare oltre. E dopo essersi complimentato per «il riconoscimento dell'errore» da parte di D'Alema, aveva aggiunto che «l'unica soluzione sarebbe quella di raccogliere tutte le grandi forze del Paese, così da governare insieme». In effetti, se la «tesi del pareggio» fosse fondata, il passo successivo sarebbe la nascita di un «governo del pareggio». Proprio l'esecutivo istituzionale che il capo di Ld proporrà formalmente in vista di gennaio, considerando di fatto «conclusa » l'esperienza di Romano Prodi.
D'altronde le difficoltà del Professore sono evidenti, se persino il suo più fedele alleato del momento, Clemente Mastella, qualche giorno fa ha affermato che «alle elezioni per il Senato abbiamo perso con uno scarto di 400 mila voti»: «Perciò, diciamo la verità, è irregolare che a palazzo Madama noi siamo maggioranza». Certo, il tanto vituperato «Porcellum» nel 2006 garantì all'Unione gli eletti per governare, «e allora — come ricorda il senatore democratico Antonio Polito — pur di non riconoscere che era finita pari e patta, venne preso a mo' di paragone Winston Churchill, che faceva il primo ministro con un voto di vantaggio. Vabbé, ma quello era Churchill... E difatti la nostra debolezza non è dovuta al risicato vantaggio numerico al Senato, ma alla debolezza politica del governo che si è abbattuta sulla maggioranza». Pareggio, altro che vittoria. Le vecchie certezze si sono formalmente infrante dinnanzi alla clamorosa denuncia di Fausto Bertinotti sul «fallimento» dell'alleanza, affermazione che è frutto di una analisi elaborata a lungo nel Prc, e di cui c'è traccia in una frase pronunciata qualche settimana fa dal sottosegretario Alfonso Gianni: «Dopo le elezioni sbagliammo a sventolare il programma senza capire che 24 mila voti di scarto non sarebbero bastati per governare, e che avremmo dovuto assumere un'iniziativa». «Ma solo ora ci si accorge della realtà», accusa il diniano Giuseppe Scalera: «Dopo l'esternazione di Bertinotti, dopo la fiducia ottenuta solo grazie ai senatori a vita, dopo la sconfessione di Tommaso Padoa- Schioppa sul caso Rai, che in altri tempi — per molto meno — avrebbe portato alle dimissioni del ministro. È mai pensabile andare avanti così, aspettando il voto favorevole di Francesco Cossiga, le nevrosi di Rifondazione, i casi di coscienza dei Teodem e le richieste di Mastella? E chiedo: in queste condizioni è più irresponsabile staccare la spina al governo o proseguire tra minacce e ricatti?».
Che Prodi abbia esaurito il suo tempo lo pensano (e lo dicono) anche nel Pd. Peppino Caldarola sostiene che «Walter Veltroni non parlerà mai di governo istituzionale, ma l'altro giorno al coordinamento del partito ha spiegato che per fare le riforme istituzionali non si può stare con un piede dentro e l'altro fuori. Le riforme insomma sono la priorità, e tra le riforme e il governo, bisogna scegliere le riforme. E se è vero che sarebbe stato ragionevole nel 2006 prendere atto del voto e varare il governo del pareggio, a maggior ragione ora questa ipotesi è in campo ». Per costruirla c'è tempo fino a gennaio. Perché maturino le condizioni, è necessario l'impegno dei leader politici. Come dice Marco Follini, «basterebbe avere la consapevolezza del pareggio»: «Serviva due anni fa e servirebbe oggi, visto che siamo allo stallo».
Francesco Verderami - Corriere della Sera
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