Nella conferenza stampa di fine anno il presidente del consiglio Romano Prodi da un lato ha ammesso, seppur in modo mediato, quel che tutti ormai sapevano, e cioè che la sua unica forza è l’assenza di un’alternativa al proprio governo che non siano le elezioni anticipate. Dall’altro ha sfidato la sua maggioranza a sfiduciarlo apertamente in modo formale, se vogliono mandarlo via quella è l’unica via percorribile e non certo dichiarazioni o sedi extraistituzionali come quella della prossima verifica di maggioranza prevista per il dieci gennaio. Il professore all’attacco dei suoi alleati, dunque, e soprattutto del ‘suo’ partito, quel Pd che da quando è nato incoronando Walter Veltroni segretario lo scorso 14 ottobre ha reso ogni giorno più evidente la fine del ruolo politico dell’attuale presidente del consiglio. Che però sembra aver bene appreso la lezione di dieci anni, quando a farlo cadere fu una congiura di palazzo con tanti artefici diversi e nel solo Massimo D’Alema un presunto colpevole però mai tale formalmente riconosciuto. Se anche stavolta ci sarà l’assassinio ‘politico’ del suo governo , Romano vuole scrivere su un bigliettino i nomi dei colpevoli. Soprattutto non intende dare alibi a nessuno, a partire da Fausto Bertinotti che allora chiedeva la svolta con le trentacinque ore lavorative settimanali. L’attuale presidente della Camera ha chiesto una nuova svolta e Prodi ha posto in cima all’agenda la questione dei salari, tanto da far riaprire le ferite lasciate sul corpo della Cgil dalla vicenda Welfare, come testimoniato dalla recente intervista di Guglielmo Epifani a LA REPUBBLICA.
Ma tant’è, a Palazzo Chigi sanno che l’unico modo per provare a superare gennaio è accontentare tutta la coalizione, chiamando innanzitutto proprio il Pd a giocare il ruolo di guardia presidenziale. E’ una partita rischiosa, che se persa comporterebbe la fine dell’attuale governo, ma che per ora vede tutta la maggioranza compatta attorno al presidente del consiglio.Tutti tranne i soliti Dini e Fisichella. E proprio il dissenso espresso dal capo dei liberaldemocratici ha costretto sulla difensiva l’intera Unione nel dire che dopo Prodi ci sono solo le elezioni. Forte di questo il professore ieri ha in sostanza messo nero su bianco che lui è pronto a governare a Palazzo Madama anche se i voti dei senatori a vita divenissero determinanti. Circostanza che in qualche modo dovrà essere vagliata dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Già in passato il Colle aveva in modo indiretto espresso le proprie perplessità circa una simile ipotesi, al punto che dopo la fiducia approvata grazie al voto del senatore Cossiga, dalla Cdl si aspettavano un intervento del Quirinale. Adesso che al netto dei dissensi conclamati di Fisichella e dei diniani i senatori a vita entrano a far parte in modo stabile dell’Unione, un problema istituzionale per il Colle si pone. Ma per Napolitano, per Veltroni e per il premier istituzionale in pectore Franco Marini, è il messaggio mandato ieri mattina dal premier, sarebbe di ben più difficile soluzione il problema del dopo Prodi. Su questo il professore è talmente punto sul vivo che messo da parte il suo incedere molto riflessivo, si è concesso perfino una caduta di stile invitando a tener presente che ‘se al Senato abbiamo una maggioranza risicata, alla Camera godiamo invece di un’ampia maggioranza , e che un siffatto governo(cioè delle riforme) dovrebbe prendere anche la fiducia dell’Aula di Montecitorio’. Il governo del presidente del Senato, manda a dire il professore, avrebbe cioè vita dura a conquistare i voti di tutta l’Unione e soprattutto dell’intero Pd anche alla Camera, dove i soli gruppi del Pd e di Fi non riuscirebbero da soli a dar vita ad un governissimo, e dove soprattutto le liste presentate non erano , come al Senato, quella di Ds e Dl, ma quelle dell’Ulivo e dove quindi siede la maggior parte della truppa prodiana, si pensi a Parisi, Rosy Bindi ed Enrico Letta, oltre ai non pochi deputati meno noti ma strettamente legati al professore.
Insomma Prodi ha detto che alla Camera ha i numeri per mettersi di traverso ad un governo delle riforme e che ha tutta l’intenzione di farlo. Adesso, in attesa della verifica di maggioranza, la prossima mossa della complicata partita che si gioca intorno alle riforme e ad un possibile governo istituzionale tocca al Presidente della Repubblica. In circostanze molto simili, nel dicembre 1994, con un governo che godeva alla Camera di un’ampia maggioranza mentre al Senato aveva numeri ben più risicati , e con una forza di maggioranza determinante al Senato, la Lega, che in tutti i modi ripeteva che l’esperienza di quell’esecutivo era finita, l’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro invitò il premier Silvio Berlusconi ad “una grande rinunzia”, ad “una tregua”. Il prossimo 31 dicembre il Capo dello Stato Giorgio Napolitano è chiamato forse a tenere uno dei più difficili discorsi di fine d’anno del suo mandato.
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